Il leone e i figli del re

Epraimo Lessing

(Traduzione U. Frittelli, Lapi, Città di Castello)

Un leone aveva preso fra le fauci un fanciullo, e senza fargli male l'aveva portato nella foresta. Era un piccolo principe; poveretto, quanto doveva soffrire nell'antro, rannicchiato, tremante, nutrito di erba e di carne cruda, mezzo morto! Era figlio del re del paese. Aveva dieci anni. Il re non aveva che lui e una fanciulletta di due anni appena. Immaginate il dolore del padre, lo spavento di tutti.
Passò un eroe e domandò: - Cosa è stato? - Gli fu contato il fatto, ed egli si avviò verso l'antro. Penetrò nella foresta oscura, giunse alla caverna scavata nel granito, appena rischiarata da una spaccatura dalla roccia. Il leone, grande, spaventevole a vedersi, era immerso in riflessioni profonde. Il cavalier trasse la spada e lo salutò. - Tu nascondi qui un fanciullo: io vengo a riprenderlo.
Rendilo, e saremo amici: se no morrai. E il leone sorrise. Il duello fu terribile, ma il leone mangiò l'eroe; poi posò il capo sulla roccia, e si addormentò.
E venne un eremita. Il leone si svegliò, sbadigliò e chiese: Che vuoi? - il mio re. - Quale re? - il mio principe. - Chi? - Il fanciullo. - E lo chiami re? - L'eremita salutò il leone: - O re, perché hai preso questo fanciullo? - Perché mi annoio; egli mi tiene compagnia ne' giorni di pioggia. - Rendimelo - No - Che vuoi farne? Vuoi mangiarlo? - Se avessi fame! - Pensa al padre, al suo dolore crudele. - Gli uomini mi hanno ucciso la leonessa, mia madre. - Il padre è re come tu sei. - Non proprio così: se parla lui, è un uomo, se mi fo udire io, è il leone. - Se egli perde questo figlio... - Ha la figliola - Troppo poco per un re. - Io non ho famiglia: mi contento delle roccie della foresta, io - Sii clemente - La clemenza non esiste. Vattene, lontano di qui, vecchio imbecille.
L'eremita partì. E venne tutto un esercito a dare la caccia alla belva, e i soldati erano numerosi, ben pasciuti, bene armati.
Torme di cani li accompagnavano, un capitano valoroso li conduceva. Il leone aveva riaperto gli occhi, ma rimaneva sdraiato: solo si moveva la sua coda enorme. I soldati si avanzavano animosi, attraverso la boscaglia, guidati dal chiarore delle torce, silenziosi, ordinati, ma trepidanti. Gli alberi fremevano, la bocca della caverna metteva paura. A un tratto apparve il leone, e i più arditi tremarono. Un nembo di frecce piombò addosso al mostro, molte si conficcarono sul suo dorso; egli le scosse, guardò la truppa e gettò un ruggito, uno di quei ruggiti che somigliano al tuono. In un attimo, capi e soldati, fuggendo, sparirono. E il leone, offeso, sdegnato, salì alla cima della montagna e gridò: - O re, tu mi hai assalito vilmente. A tuo figlio non ho fatto male, sin ora, ma domani all'alba entrerò nella tua città e mangerò tuo figlio nel tuo palazzo. E all'indomani entrò nella città: camminava per le vie, e le vie erano deserte: tutti fuggivano. Il leone non ruggiva, perché aveva in bocca il fanciullo, ma i suoi occhi gettavano fiamme. Giunse alla reggia senza ostacolo: la porta era aperta; entrò e non vide alcuno. Anche il re, impaurito, era corso a nascondersi. E il leone ebbe sdegno di quella viltà, e percorse il palazzo di sala in sala, cercando un luogo adatto per divorare il fanciullo. Aveva fame. A un tratto si fermò.
In un'alcova era una fanciulletta, l'altra figliola del re, dimenticata. Sola, appena desta, cantava. Il leone la vide: la sua testa enorme si avvicinò a lei passando sui balocchi che coprivano una tavola. E la fanciulla a gridare:
- Fratello, mio fratello? Mio fratello! - Si levò in piedi, guardò ardita la belva e la minacciò col ditino. E il leone posò il fratellino innanzi a lei, presso la culla, come avrebbe fatto la madre:
- Eccolo. Via, non t'inquietare!

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