Il canarino

Salvatore Di Giacomo
(da "Novelle Napoletane", Treves, Milano)

Era stato tolto piccoletto al nido, e più non ricordava nè dove è come. Ricordava senza precisione certo aggrovigliamento di rami di fronde, una fiorita, stesa di piano, un gran pezzo di cielo azzurro; niente più. L'adozione era stata larga di cure, e, dapprima, dolce fu la prigione. E li il canarino diventò un cantore elegantissimo, una specie di tenorino di grazia. 
- Bene, bene! - esclamò il marito della signora - Ecco il canarino che comincia a dirci qualcosa. 
E ogni volta che si trovava nel tinello a lavarsi la faccia, egli faceva lo zufolò col tovagliolo fra le mani. La casa dalla quale era sloggiato era scura e silenziosa. Le finestre non davano sulla
strada, riuscivano in un cortile abbandonato, dominio di terribili pipistrelli, qualcuno de' quali perfino veniva a sbatter l'ali intorno alla gabbiuzza, dove il povero canarino tremava di terrore.
La bestiola, di sotto l'arco della finestra, non vedeva che i muri grigi del cortile, dagli angoli ch'erano dominio di polverose ragnatele, da' buchi neri, che la notte diventavano case di nottole. Le carrucole nei pozzi stridevano, le secchie si urtavano; le serve, a prima ora, trovandosi tutte ad attingere, dicevano male della gente, appiccicando a ognuno un aggettivo che metteva in tutto il pozzo il suono di goffe risate. Questa la vita del cortile. Una volta solamente il canarino usci dalla sua malinconia.
Una delle fantesche ripuliva la gabbia d'un altro canarino, lasciando cader giù nel cortile le beccate sfuggite del miglio, i rifiuti del prigioniero, e canticchiando. E poiché quell'uccelletto, per la soddisfazione del miglio fresco e dell'acqua pulita, metteva di tanto in tanto piccoli
gridi acuti, quest'altro credette d'aver trovato. finalmente qualcuno col quale potesse chiacchierare nelle ore di noia.
Lo chiamò allora due volte:
- Zizi ! zi ! zi ! zi !
Quello rispose allegramente:
- Zi ! zi !
Poi vi fu un silenzio. La serva aveva portato via la gabbia: il povero canarino, disilluso, ricadde in malinconia, e, non avendo da far altro, si rimise a contemplare i muri del cortile.
In una giornata di novembre fu tale lo scrosciar della pioggia furiosa, e cosi spaventevoli furono i lampi e i tuoni, che il canarino, solo solo nella gabbia, credette che l'ultimo giorno della sua vita fosse arrivato. Dal lampeggiare continuo era illuminato il cortile, i ferri della gabbia pareva si arroventassero. Poco dopo accorse la serva, che aveva lasciato aperte le vetrate della finestra.
- Meno male! - esclamò - I vetri non si son rotti! E chi l'avrebbe sentito il padrone !...
Mio Dio, nemmeno una parola per quella povera bestia tremante di freddo e di paura! Bella carità cristiana ! E così il canarino, a poco a poco, s'abituò ad ogni sorta d'ingenerosità. Nessuno si pigliava pena di lui; ma nessuno, tuttavia, lo veniva a seccare.
Meglio cosi. E il suo amico divenne un pezzo di muro di faccia; ove un ragno intesseva comodamente la sua tela. Nell'estate, quando un po' di sole fece la spia nel cortile, la tela ne fu tutta illuminata, e il ragno vi passeggiò in lungo e in largo, con una grande boria di padrone di casa. 
In tutto il giorno si riudivano le voci delle fantesche, lo strepito delle cazzeruole, risate lunghe e sguaiate, scoppiettii di carboni dalle fomacette. La musica metteva in allegria il canarino, che,a volte, vi mescolava. certe note acute e un trillo per cui le serve, meravigliate, tacevano.
Una di loro, mentre lui si sfogava, esclamò:
- Bravo, e che bella vocetta !
La lode, Dio buono, se la pigliano tutti; la desiderano anche i modesti. Il canarino si guardò i pieducci, ripulì il becco a un ferro della gabbia, si piantò saldo sulle gambette, e si mise a
cantare:

se il mio nome saper voi bramate...

A maggio, i signori della casa sloggiarono.
La primavera sospirava più forte con gli spasimi dei fiori, col sussurro delle piante in amore, e nell'aria salivano odori soavissimi e freschi soffi di zeffiri. In una bella giornata profumata si
svegliò il canarino a un pispiglio sommesso. Una passera aveva fatto il nido dirimpetto. Poi furono piccoli gridi di compagni liberi che passavano; furono a volte cicalecci impertinenti di rondoni in chiacchiere sui tetti. I rondoni, al solito, dicevano male del vicinato. 
Quello era bello, quell'altro era brutto, la tal signorina non sapeva cantare, il violinista del quinto piano pigliava certi acuti stonati.
E il giardino si svegliava all'alba con questi discorsi di uccelli, con la loro querele peripatetiche, con ronzìi d'insetti invisibili e voli di bianche farfalle.
Il canarino ebbe da tutta questa vita, che gli ricordava indefinitamente il bosco e l'odore acre delle piante, quella malinconia dei ricordi che, si dice, tornano nel. tempo della disgrazia. N'ebbe singhiozzi di rimpianto e di desiderio, che gli rompevano il canto nella gola. E gli cominciarono a cadere le penne. Una si posò sul davanzale della finestra, e un colombo se la venne a pigliare.
- Scusate, amico - gli chiese il canarino dalla sua gabbia - siete di questi paraggi voi?
- Eccome! - rispose il colombo - Gli è qui che son nato. Guardate laggiù accosto alla grondaia. Vedete voi quel buco nero nero? Li ho fatto il nido. E questa penna che vi è caduta, se permettete, la metto al lettuccio de' miei piccini. Vi dispiace?
- Anzi, - disse il canarino - fortunato se divento materasso ! Ma, sentite, verrete voi a tenermi compagnia qualche volta?
- Perché no? - disse il colombo - Ma in questi giorni non posso: ho i piccini; udite voi come chiamano?
Il canarino non udiva nulla.
- Eh ! -fece il colombo - Li odo io, li odo! Quando avrete figli anche voi!... Arrivederci.
- Arrivederci.
E quasi ogni giorno lo stesso colombo veniva a pigliarsi una penna caduta.
- Fatemi la finezza - gli chiese una volta il canarino - sapreste voi perché cosi spesso mi cadono le penne? lo ne sono assai impensierito.
Il colombo lo guardò malinconicamente.
- Che volete che vi dica ?
E non gli volle dire, che gli anni e i dispiaceri sogliono fare di questi scherzi.
Passò un mese. l piccini del colombo s'erano fatti grandi, e strillavano, sporgendo dalla buca le testine ancora spelate. Attorno a quel nido altri nidi si destavano all'alba; e un pigolio continuo succedeva, sino a quando l'appetito dei piccoli colombi non era soddisfatto. I colombi grandi tubavano all'ombra, empiendo il cortile della dolcezza dei loro amori.
In luglio il colombo grigio si ricordò della conoscenza. Ma quella mattina aveva avuto tanto da fare, e s'era così impensierito di certi muratori ch'eran venuti a mettere le scale sui muri, presso i nidi, che la visita dovette farla la sera, quando i muratori se ne erano andati.
C'era una luna bianca, che faceva capolino di sul belvedere delle monache.
- Buona sera! - disse il colombo - Come state? Sentite che bell'aria fresca?
- Ahimè - disse il canarino -Se sapeste, amico mio.! Da qualche tempo san colto da tale tristezza, che a momenti mi pare di morire. Mi spoglio ogni giorno più, e mi pigliano brividi di freddo, ed anche provo una grande debolezza. Come mai questo, caro mio?
- Che volete che vi dica? - rispose il colombo, con gli occhi bassi; - lo san qui dirimpetto, se mai.
E se ne andò, ammalinconito anche lui.
- Poi tornò, dopo una settimana. La gabbiuzza era vuota. Ma c'era ancora, sulla finestra, un'ultima piuma gialla. Il colombo non ebbe il coraggio di portarsela via.
E c'era un chiaro di luna quella sera, un chiaro di luna così grande, così grande!..

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