STORIE

Amici per sempre

Dario Niccodemi
(da "Il romanzo di Scampolo", Treves, Milano)

Un cagnetto povero, un po' spelacchiato e un po' ferito a una zampa, passò sotto l'arco trionfale. Vide la bambina e, curioso come ogni sfaccendato, si fermò a guardarla.
Aveva due grandi occhi neri nascosti tra i peli del muso, grigi, arruffati e alquanto fangosi. Due di quegli occhi indefinibili che sembrano aver raccolta e racchiusa tutta la bontà caduta dagli occhi degli uomini.
Guardava la dormiente, fisso fisso, con dei movimenti bruschi e buffi della testa, che s'inclinava ora a destra , ora a sinistra come quella d'un conoscitore che esamina un quadro, un po' in distanza.
Si avvicinò, canto, alla scatola dei cerini.
Il cane è buono, ma è ladro, spesso, e fiutando e raspando la scatola di Scàmpolo le sue intenzioni non erano, certo, oneste. Ma quando fu convinto che una scatola può essere anche vuota, si piantò davanti alla bimba, seduto anche lui, impettito e grave, e continuò a guardarla.
La testa di Scàmpolo, pesante di sonno, cadde in avanti, sul petto.
Il cucciolo fece un salto indietro e la guardò più intensamente, come per capire il significato di quel movimento inaspettato e inconcludente.
La testina si rialzò, dondolò un momento, per cadere sulla spalla.
Altro salto del  cucciolo. Non c'era più dubbio possibile per lui: la bambina voleva giocare, e lui era pronto; scodinzolava, aspettando il segnale. Col muso tra le zampe allungate, con tutto il corpo teso nell'aspettativa, la fissava per non perdere il minimo movimento. Le narici, soffiando nella polvere bianca della via Sacra, sollevavano delle piccole nuvolette: starnutiva, si scuoteva, si rimetteva in posa, come se puntasse per suo divertimento.
Poi scattava, faceva una corsa in tondo, passo d'allegria; ritornava al suo posto; si avvicinava sempre di più e sempre di più allargava la curva delle sue corse frenetiche.
Ma Scàmpolo non si muoveva più e anche lui rimase fermo un momento. Volle prendere a volo una farfalla che gli passò vicino, ma la mancò e non insistette: la bambina l'interessava di più.
A un tratto drizzò le orecchie perché gli era sembrato di udire un rumore. Non sbagliava. Scàmpolo, forse oppressa da un incubo, aveva sospirato forte. Aspettò. Il lieve affanno della bambina si fece udire ancora,e  allora anche lui ruppe il silenzio. Incominciò a rumoreggiare, correndo; si mise ad abbaiare gioiosamente, senza ritegno, come se avesse, finalmente, incontrato quel che mancava nella sua vita randagia: un padrone.
Azzannò la cinghia della scatola e incominciò a rinculare, tirandosela dietro, con dei grugniti sordi che sembravano risate represse.
Scàmpolo si svegliò. Il suo sguardo fu come un ordine per il cagnetto. Lasciò la preda, tacque, si mise sull'attenti, aspettò.
- Vieni! -
La bambina gli stese la mano, e lui si rimpicciolì, camminò di sbieco, contorcendosi in mille moine umili, lamentandosi sommessamente. Aveva riso; sembrava che volesse piangere.
Lo chiamò Tito come l'Arco di trionfo, come il vincitore di Gerusalemme.
Lo prese: volle accarezzarlo, ma Tito urlò di dolore; si sdraiò sulla terra, colla zampina in aria, piegata, rattrappita come un moncherino. Gliela curò con dell'erba fresca e gliela fasciò con un pezzo della sua gonna.
Si capirono e non si lasciarono più.

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