La volpe
Fabio Tombari
(dal "Corriere della Sera")
Erano nati sei volpacchiotti. La madre
quando vide i suoi piccoli ciechi si mise a piangere. Tutte le madri di volpe
credono che i loro figli siano ciechi, ma non è vero. Dopo sette giorni i
piccini avevano aperto gli occhi e già si movevano da soli. Venne la questione
dell'alloggio: occorreva un'abitazione ampia con tante camere e più corridoi,
ma non è facile trovarla in un bosco. Come fare?
Nella macchia vicina abitava un vecchio tasso celibe e un po' maniaco, pieno di
tic nervosi, ma molto amante della pulizia.
Era il signore della macchia. I due volponi
ricorsero a un'astuzia. Di giorno, quando il tasso dormiva, andavano a deporgli
sulle porte della tana tutto ciò che di più puzzolente riuscivano a
provvedere, finché il tasso fu costretto a sloggiare. Così i piccoli cuccioli
ebbero la loro bella casa e quando nevicava e pioveva forte non starnutivano
più. Venne la primavera quando il bosco cinguetta. D'intorno era già tutto
fiorito, la felce era alta. la notte è così bella che la morte non fa
più paura.
I cuccioli avevano per baloccarsi ogni
sorta di giocattoli che il babbo portava loro dalle sue scorrerie: dei sigari di
giunco, una scarpa vecchia, un ranocchio a scatto automatico. Quando era bel
tempo la madre usciva coi suoi piccini tutti vestiti di lana grigia. Li portava
a passeggio,a scaldarsi nelle macchie di sole, oppure li conduceva a
scuola da un vecchio volpone tutto pelato e zoppo, ma molto saggio, che si
vantava di essersi mangiato una gamba per sfuggire dalla tagliola.
Gl'insegnamenti del vecchio erano molto semplici, ma sintetizzavano varie
materie.
- La linea netta - diceva . è la più
lunga fra due punti, poiché vi si incontra la morte. Preferite la notte al
giorno. Quando entrate in un casolare, accontentatevi di poco: siate onesti.
Annusate sempre intorno a voi: la vita e il pericolo hanno un odore.
Osservate tutto e notate ogni minima cosa. Non date mai a vedere d'essere delle
volpi; s volete manifestare un pensiero ad alta voce fingetevi cuccioli di cane:
abbaiate. A caccia ricordatevi di essere una selvaggina anche voi, guardatevi
d'intorno, accosciatevi spesso, ascoltate ciò che dice la terra. Se feriti, non
urlate, mettetevi sottovento dei cani e medicatevi con le radici del rafano.
Non temete mai gli scoppi, temete i fruscii, e rifugiatevi di preferenza
nel grano. Guardatevi dai funghi velenosi e purgatevi spesso col ricino.
Quell'insegnamento però durò poco. Una
notte i cuccioli aspettarono inutilmente il loro babbo. Il babbo non venne più.
E i volpacchiotti dovettero abbandonare la scuola per provvedersi del cibo. Non
si potevano dir poveri, poiché con la morte del babbo erano toccate loro in
eredità tutte le terre ed i pollai d'intorno per un raggio di molti chilometri.
Poi due morirono di tosse, un altro cucciolo fu ucciso da una vipera. E infine
una sera d'estate avvenne la strage. I cani li avevano scovati. Arrivarono gli
uomini col bastone che tuona, spararono, distrussero la tana. La madre fu prima
a saltar fuori per difendere i suoi orfanelli. Ma non li potè salvare.
Gli uomini avevano già ucciso due piccoli
e catturarono il terzo, che portarono via.
Quella sera la volpe s'aggirò inutilmente
nel bosco. Discese la notte. Pareva che tutte le stelle fossero state messe a
casaccio; l'universo schiantato, rovesciato. La madre uscì dalla macchia,
cercò al fiuto suo figlio, errò per i campi. Infine lo sentì a due miglia
distante e galoppò per la strada a testa bassa fiutando le peste.
Il figlio era là in quella casa. Ma come fare ad arrivarvi senza farsi
accorgere? Se il figlio si fosse messo a piangere, sarebbero usciti i cani. La
madre quatta quatta aggirò la casa, si portò sottovento, fu sull'aia.
Vide il figlio e gli saltò addosso a mordergli la bocca perché non urlasse.
Poi gli addentò il collare per liberarlo, ma fu impossibile, qualcosa di forte
gli strideva sotto i denti.
Allora cominciò a piangere anche lei.
Piangeva, per non farsi accorgere, sul nasetto del cucciolo, piano piano,
dolcemente, come piangono le madri. Il figlio brontolò che aveva fame. E la
madre corse al pollaio, scannò tre o quattro tacchini, gliene portò uno.
Mentre il figlio mangiava, la madre lo leccava, lo pulì tutto.
Poi sorse l'aurora. Toccava partire. - Tornerò tutte le notti - bisbigliava la
madre leccandogli il musetto. Ma non sapeva come staccarsi dal figlio. Bisognava
abbandonarlo senza che questi piangesse.
Allora alla madre venne un'idea, e fece due
o tre capriole per far ridere il cucciolo. Il cucciolo rise e guardava la mamma
sua tutto felice agitando a festa la coda. La volpe spiccò un salto mortale
all'indietro, un altro salto, un altro ancora. S'era così allontanata dal
cucciolo d'una ventina di passi, sì che il cucciolo fra lume e scuro la vedeva
appena e già cominciava a guaire. E la volpe si allontanò su per il vialone al
trotto fin che il figlio più non la vide.
Ma non era sparita. Quando il sole s'alzò
tutto raggiante di fiamme, lei era ancora lassù seduta su un mucchio di sassi,
che guardava il cucciolo suo. Questi raggomitolato in terra s'era messo giù a
dormire con la gran coda sugli occhi perché non gli entrasse dentro il sole.
E la madre di lontano lo guardava sempre. Poi il contadino s'alzò. La volpe
udì aprire le finestre della casa, abbaiare un cane. E la volpe partì. A testa
bassa, s'imboscò per le siepi con un pò di freddo nel cuore.
|