La sorellina
Enrico Panzacchi
(da " I miei racconti", Zanichelli, Bologna)
Io voglio risalire con la mente al primo
ricordo preciso della mia vita. Più in là, per quanto io guardi, non veggo
ondeggiarmi dinanzi che qualche ombra vaga, perdentesi nei primissimi crepuscoli
della mia memoria.
Ecco: Io vedo ancora la casetta ove la mia famiglia passava gran parte dell'anno
quando ero bambino: bassa, bianca, con le finestre verdi, non circondata
d'alberi, posta fra la strada maestra e il fiume Savena, a cinque chilometri da
Bologna.
Doveva da poco essere incominciato il giorno, perché guardando dalla finestra,
io vedevo il cielo da una parte tutto sparso di nubi rosse, un rosso vivissimo,
come non ne ho visto di poi che rarissime volte in qualche tramonto estivo.
Quantunque fosse di così di buon'ora, nella casa già era un tramestìo
insolito. Sentivo aprire e chiudere usci; sentivo passi affrettati e bisbigli
Certo io non mi vestii e non scesi di letto senza aiuto; ma non mi posso
ricordare di chi m'aiutasse. Vedo la fisionomia di una ragazza di casa,
l'Eugenia; ma quella fisionomia si mesce confusamente a quasi tutti i miei
ricordi infantili.
Dopo, la mia memoria si perde per un certo tratto. C'è come uno strappo che non
riesco a riunire. Dove e come io abbia passata quella giornata non ricordo; un
momento mi vedo in confuso a passeggiare con un grosso cane, vicino al fiume,
che cominciava ad ingrossare per una delle solite piene d'autunno. Probabilmente
mi avranno tenuto apposta fuori di casa ove non potevo che essere molto male a
proposito tra i piedi della gente.
Ma più tardi,forse verso il tramonto, ecco ch'io sono ancora in casa mia, e
precisamente sulla breve scala che dalle stanze superiori mette nella loggia al
pianterreno.
La porta è aperta, spalancata, e vedo della gente che va e viene nella strada
maestra.
Nella loggia, tre o quattro persone, intorno ad un lettino collocato in faccia
alla porta. Distinguo benissimo mia madre, che sta in piedi accanto al lettino,
e di tanto in tanto si china sovr'esso con una grande espressione d'angoscia,
senza pronunziare parola.
In quella cuna agonizzava una mia sorellina di circa un anno e mezzo; e
l'avevano portata dalla sua stanza nella loggia, vicino alla porta spalancata,
per vedere se potesse meno penosamente respirare. Io credo che la poverina
morisse di difterite; ma allora i medici non avevano ancora messo in voga questa
lugubre parola.
La bimba era proprio agli estremi, ed io dalla scala, non osservato stavo
guardando la triste scena. Guardavo immobile, con gli occhi fissi, senza
rendermi ancora conto di ciò che accadeva, ma sentendo confusamente dentro di
me che io mi trovava in presenza di una cosa arcana e terribile.
Il visino della bimba era tutto color di cera, fuor che intorno alla bocca
semiaperta, che si mutava via via in una tinta tra il nero e il violetto. I due
braccini, fuori dalla coperta, stavano abbandonati e senza moto sul corpo
inerte. Tutto il moto del corpo poi erasi limitato su su verso il collo e la
bocca, negli ultimi sforzi della respirazione, che ad ogni minuto secondo
s'andava affrettando penosamente, e come restringendo sempre di più il suo
circolo breve.
Il respiro della creaturina somigliava nel suono a un lieve rantolo sibilante.
Ed io lo sentivo quel respiro di creatura moribonda; e fino a che mi rimarrà la
memoria, avrò viva e presente la indicibile pena che esso mi faceva. Sarà
forse effetto d'impressione, ma adesso mi par certo che, sempre guardando dalla
scala, anch'io allora respiravo con affanno, e seguivo e secondavo e numeravo,
in qualche guisa, quel ritmo doloroso...
A un tratto il sibilo prese a diminuire rapidamente, e non sentii più nulla.
Allora il medico accese una candela e l'accostò alla bocca della bimba. Quando
sentii singhiozzare e piangere forte intorno a me, mi misi a piangere forte
anch'io; così che l'Eugenia mi trasse di là e mi condusse fuori nel prato,
ripetendomi spesso: - E' andata in paradiso.
Che cosa era per me il paradiso? Anche questo mi venne spiegato; ma per quanto
la descrizione fosse allegra, io seguitavo a essere triste; e più d'una volta
volli vedere la bambina morta, e già leggiadramente acconciata in mezzo ai
fiori nella sua cuna.
La sera del giorno dopo ebbe luogo il mortorio. Io era sul ponte ad
attenderlo e non ricordo con chi. Ricordo invece benissimo che la piena
del fiume era grandemente cresciuta,, e che l'acqua faceva sotto di noi un gran
rombo, precipitandosi dalla cascata e urtando contro i piloni degli archi.
Ero seduto sulla spalletta del ponte, e una mano mi teneva, io guardavo in giù
nel buoi da cui saliva il rombo del fiume grosso.
Intorno a me erano molti bimbi che facevano un chiasso allegro: ma io nella mia
testa ascoltavo il fiume e associavo, non so come, a quella sensazione una idea
di fuga, di violenza, di rapina...
E, quando finalmente si avvicinò la lunga fila dei ceri accesi che misero
nell'aria piovigginosa e buia come un incendio giulivo, io non ristetti dal
guardare le acque torbide, le acque fuggenti sotto di me, e credetti un momento,
laggiù fra i tronchi d'albero portati via dalla piena, di vedere passare anche
la mia sorellina dentro la cuna; la mia sorellina morta, che il fiume mi portava
via, lontano, verso un abisso ignoto, dove non pertanto avrei voluto seguirla e
perdermi con lei.
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